Le “ristrettezze” delle carotidi: quando intervenire?

27 Novembre 2019

La parola carotide ricorre spesso e normalmente nei discorsi della gente comune: tutti sanno quante sono, dove approssimativamente si trovano nella “geografia” del corpo umano e che ad un certo punto si ammalano, si restringono e in molti casi bisogna intervenire chirurgicamente, perché un restringimento della carotide, può portare all’ictus. Possiamo dunque parlare di operazione della carotide anche come azione di prevenzione.Le carotidi sono i principali vasi arteriosi che portano l’80% del sangue al cervello, il restante 20% lo portano le arterie vertebrali. Le carotidi sono posizionate nel collo: una a destra e una a sinistra. Come sempre, tutto parte da una buona valutazione dei fattori di rischio e della storia clinica. L’esame di primo livello, quello importante e molto spesso sufficiente, è un buon ecodoppler dei tronchi sovraortici, sottolineo buono poiché, essendo un esame molto richiesto e spesso abusato, molti si improvvisano e non sempre viene fatto correttamente. Personalmente, quando leggo un referto di un esame ecodoppler, prima guardo la firma di chi l’ha eseguito e dopo il contenuto.

Perché bisogna operare le carotidi? Quando è necessario l’intervento?
Le carotidi si ammalano. La patologia più frequente è una placca di aterosclerosi che si localizza proprio alla biforcazione della carotide. La carotide a livello dell’angolo della mandibola si sdoppia in due rami: uno va alla faccia, alla lingua ed è quello meno importante, l’altro, si orienta dritto al cervello e la placca di solito si forma proprio in questo ramo. Per completezza di informazione bisogna specificare che l’aterosclerosi non è una malattia della sole carotidi, ma notoriamente di tutte le arterie e una delle localizzazioni principali è proprio agli assi carotidei. La placca carotidea cresce molto lentamente ma può andare incontro ad alcune complicanze acute molto gravi come la trombosi o l’embolia, ovvero un pezzo di placca si stacca e questo piccolo tappo viaggia verso il cervello e va a ostruire un’arteria cerebrale. Quello che può accadere non siamo in grado di prevederlo, è del tutto casuale: va in una zona “muta” del cervello può dare piccoli disturbi, a volte transitori che possono durare meno di 24 ore o persistere alcuni mesi, oppure finisce in un centro importante e in alcuni casi provoca disastri definitivi. Un paziente colpito da ictus ha tre possibilità: 1/3 guarisce completamente, 1/3 resta paralizzato, 1/3 muore in conseguenza dell’ictus. Da qui l’interesse a diagnosticare precocemente quelle placche che possono dare questa complicanza.

Le carotidi si ammalano in silenzio o ci mandano dei segnali?
Ci sono stenosi asintomatiche che i pazienti scoprono casualmente. Il campanello d’allarme normalmente sono piccoli attacchi ischemici che durano meno di 24 ore: il paziente vede in maniera offuscata o nero per qualche istante o può esserci la paralisi ad un braccio. La vertigine, contrariamente a ciò che pensa la gente, non è un sintomo carotideo. Neanche lo svenimento.
Possiamo parlare di percentuale di restringimento?
Parlare di percentuale è troppo generico, risale a studi internazionali ormai datati che hanno dimostrato, che oltre una certa percentuale di restringimento e quindi di stenosi della carotide (quella interna che va al cervello) calcolata tra il 60-70%, aumenta in modo significativo il rischio di ictus. Ma il ragionamento è troppo semplicistico, perché oltre alla percentuale di stenosi, dobbiamo guardare al tipo di composizione della placca. Siamo in grado di avere informazioni sulla struttura sia eseguendo un buon ecodoppler che un’angioTAC. Ci sono placche ritenute stabili che si complicano con meno facilità e quelle altamente instabili, quelle soffici formate da accumuli di colesterolo, cellule in disfacimento che sono maggiormente a rischio di complicazioni quali ad esempio la trombosi.

I farmaci possono scongiurare l’intervento?
No. Le stenosi al di sotto di una certa percentuale e con caratteristiche di stabilità della placca non si operano, normalmente si agisce sui fattori che provocano l’aterosclerosi e quindi sugli stili di vita. Oltre il 60-70% di stenosi i farmaci sono poco efficaci. Ultimamente c’è una rivalutazione della terapia medica ottimale: una dieta sana, abbassare il colesterolo anche con le statine, fare molto movimento, tenere controllata la pressione. Ci sono poi farmaci che agiscono sulla capacità del sangue di trombizzare e sull’evoluzione della placca: sono gli antiaggreganti . Pare che tutti insieme possano in alcuni casi rallentare la progressione della placca, secondo i più ottimisti che la stabilizzino. Ci vorrà ancora qualche anno per saperne di più.
Quali sono i rischi dell’intervento?
Paradossalmente ma eccezionalmente gli stessi nei quali può incorrere il paziente con la stenosi, ovvero l’ictus che può essere causato dalle manovre chirurgiche, ma questo si può prevenire con un buon monitoraggio della funzione cerebrale mentre l’arteria viene temporaneamente chiusa per ripulire la placca. In Italia il rischio di un incidente grave prima o dopo l’intervento è inferiore all’1%. Un rischio concreto che va confrontato con quello della malattia lasciata a se stessa oppure con la sola terapia medica che è molto superiore: 30-40%. Un ‘altra complicanza può essere l’infarto cardiaco.
Si possono operare entrambi le carotidi e contemporaneamente?
No. È fortemente sconsigliato operare le carotidi bilateralmente nello stesso intervento, è troppo elevato il rischio che il cervello non sopporti la chiusura temporanea dell’arteria in tutte e due le carotidi.

Una volta riaperte si possono restringere?
Si, ma la percentuale è bassa. Ci sono due tipi di restenosi: la prima precoce, si ripresenta di solito entro due anni ed è dovuta a una specie cicatrice esagerata che cresce all’interno fino a restringere la carotide in modo importante. La più tardiva, a distanza di 5-6 anni si può riformare la placca aterosclerotica. La cosa importante è fare sempre i controlli periodici dopo l’intervento.

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